Uno degli ostacoli che sovente si frappongono alla corretta comprensione di fenomeni sociali, storici e polici del passato è la diffusa tendenza di leggerli con gli occhi del presente, proiettando in essi il fascio di luce di filosofie, di ideologie e, in genere, di modi di vedere il mondo contemporanee (in ambito storiografico è infatti solo dagli anni settanta del secolo scorso, a partire cioè dai Geschichtliche Grundbegriffe di Brunner, Conze e Koselleck del 1967, che gli specialisti hanno iniziato ad adottare metodi genealogico e context-oriented per l’indagine e lo studio dei fenomeni del passato).

La storia di Venezia non è affatto immune da questa tendenza, che può certamente definirsi anacronistica e che produce l’effetto di precludere spesso all’osservatore di oggi una genuina comprensione delle sue millenarie strutture politiche, economiche, giuridiche e sociali.

L’istituto dell’arbitrium come criterio nell’amministrazione della giustizia da parte della Serenissima costituisce un vero e proprio classico di questa tendenza, essendo ancor oggi ampiamente diffusa l’opinione, anche presso storici e studiosi, che le magistrature veneziane amministrassero la giustizia, sia penale che civile, mediante esclusivo ricorso alla mera discrezionalità del magistratro, del tutto libero e completamente slegato da ogni tipo di vincoli derivanti dalla legge o altro (donde le accuse di assolutismo e di scarsa cultura giuridica del regime veneziano).

Questo tipo di concezione dell’arbitrium veneziano si dimostra però fortemente influenzata da una visione moderna di arbitrio inteso per l’appunto come esercizio di potere discrezionale, concetto – quest’ultimo – che è però il prodotto di un recente e preciso processo storico, legato in particolare della formazione dello stato moderno cd. di diritto e dei principi, che esso ha portato con sé, della legalità e della divisione dei poteri.

Certo, nessuno nega che l’arbitrium sia diventato, nel corso della storia di Venezia, anche mezzo e strumento politico con il quale il patriziato veneziano riusciva a controllare la città (v. infra), ma quel che è certo è che il termine ed il concetto di discrezionalità odierno (potere concentrato e legibus solutum) non risulta in alcun modo utilizzabile per la disamina dell’istituto e del concetto dell’arbitrium veneziano (medievale), per una cui precisa apprensione è invece utile, ed anzi necessario, risalire alla sua specifica genealogia.

Ebbene, le origini dell’istituto sono strettamente connesse – quanto alla sua definizione ed ai suoi caratteri – agli Statuti Tiepoleschi del 1242 e – quanto alla sua concreta applicazione – alla nascita della Curia di Petizion nel 1244.

Il primo prologo degli Statuti del Tiepolo inserisce l’arbitrio tra le fonti del diritto dopo gli Statuti e l’analogia o la consuetudine cd. approvata, in particolare prevedendo che, dopo aver verificato l’assenza delle fonti primarie, il giudice dovesse rendere giustizia “sicut iustum ed aequum providentiae apparebit, habentes Deum ante oculos mentis suae, sic ut in die districti examinis coram tremendo Judice dignam possint reddere rationem”.

Si tratta di una definizione che percorre tutta la storia di Venezia, dal momento che gli Statuti del Tiepolo, composti da 5 libri (poi diventati 6 nel ‘300 con Andrea Dandolo), sono rimasti (pur con un consistente apparato di glosse e pur con alcuni stralci per specifici settori, come gli statuti marittimi di Ranieri Zeno duecenteschi ed il codice feudale del ‘500) il cuore ed il simbolo del diritto veneziano sino alla fine della Serenissima, la quale cadde senza che le fosse stato possibile approvare i codici civile e penale nuovi sulla scia della stagione della codificazione del diritto (eccezion fatta per il solo codice della Veneta Mercantile Marina, che fu approvato una decina di anni prima della fine).

L’origine della Curia di Petizion risale a quegli stessi anni e le ragioni della sua nascita sono legate alla esigenza di fornire alle parti litiganti uno strumento di giustizia sostanziale.

Essa, introdotta nel 1244 originariamente senza previsione di specifiche competenze per materia (solo successivamente le avrà), interveniva infatti, a seguito di una supplica (donde il nome Petizion) avanzata dalle parti di una causa pendente in altra Curia, nei casi in cui il processo rischiava di condurre ad un defectus iustitiae ove fosse stato giudicato secondo stretto diritto (ratio), con lo scopo di facere iustitiam (giustizia sostanziale) oltre i formalismi giuridico-normativi nei casi in cui questi non fossero in grado di assicurare una tutela effettiva.

Andrea Brustolon  – Incisione – Seduta del Maggior Consiglio

Se avocava a sé la decisione, la Curia di Petizion giudicava quindi “secundum iustitiam laudum et arbitrium”, cioè con criteri equitativi (arbitrium).

Come si vede, l’arbitrium a Venezia era quindi – da un lato – una fonte formale del diritto e – dall’altro – un mezzo di attuazione della giustizia sostanziale.

Come fonte formale del diritto, esso era uno strumento di creazione (e non di applicazione) del diritto. In altri termini, quando utilizzava l’arbitrium il giudice si trovava allo stesso livello formale del del legislatore ed esercitava una facoltà illimitata di formulare direttamente il diritto da applicare al caso concreto.

Qui sta tutta la differenza con la concezione moderna della discrezionalità, che presuppone una legislazione data aliunde che il giudice si limita ad applicare ed in relazione alla quale il potere discrezionale consiste nella possibilità di evitarla, superarla, aggirarla, etc.: il giudice veneziano è invece posto allo stesso livello formale del legislatore, crea il diritto ed in questa attività non conosce limiti giuridici (ma solo politici e risponde solo a questi).

Come mezzo di attuazione della giustizia sostanziale, esso significa iustitia e soperamento del rigore dell’ordo al fine di “constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuens”.

Il Bertaldo nel suo Splendor lo definisce in termini di bona conscientia del giudice, specificando deve derivare dall’applicazione di un procedimento analogico applicato agli statuti, ai consilia ed alla consuetudine (“oriri debet et formari ab aliquo trium predictorum”), sicché l’arbitrium si forma come espressione dei principi generali dell’ordinamento giuridico veneziano, di cui esso esprime pertanto l’espressione della massima potenzialità giuridica.

Qualora ciò non fosse stato possibile, allora non sarebbe rimasta che la “aperta praesumptio”, cioè la “pura consientia iudicum” che decide “sic esse vel non esse”, con la precisazione che non si tratta di “praesumptio suspiciosa ad male credendum tantum ex cogitatione sine causa”, che il giudice non può in alcun modo utilizzare, ma di preasumpio “in bonum” (e la differenza tra praesumptio e suspicio è che la prima è in bonum, la seconda in malum).

Gabriel Bella – La sala del Consiglio dei Dieci – Fondazione Querini Stampalia, Venezia

Ma ciò che più conta è la limitazione dell’arbitrium derivante dalle concezioni etico-religiose e politiche dell’epoca. Non va dimenticato infatti che la società medievale è una societas christiana, in cui la morale cattolica è strettamente legata al diritto, innerva e costituisce la linfa e lo spirito vitale dell’esperienza giuridica e si impone nell’animo dei giudici cui preme prima di tutto la propria salvezza eterna (e quindi si comportano emettendo le sentenze secondo la morale cattolica).

Gli Statuti del Tiepolo del 1242 sono estremamente chiari su questo punto, sottoponendo esplicitamente l’arbitrium e la sua applicazione concreta al futuro giudizio divino: il giudice deve infatti applicare l’arbitrium “habentes Deum ante oculos mentis suae, sic ut in die districti examinis coram tremendo Judice dignam possint reddere rationem”.

Certo – lo si è già anticipato – dietro l’arbitrium inteso come creazione di diritto vi sono non solo esigenze giuridico-sistematiche (con l’esclusione dell’autorità e dell’applicazione dello jus comune da Venezia si doveva rinvenire un criterio per colmare le lacune dell’ordinamento giuridico cittadino e questo fu fatto per l’appunto con l’arbitrium e la latitudine dei poteri ad esso connessi), ma anche scelte di politica interna, che vedono in esso un formidabile stumento di esercizio del potere della montante classe aristocratica-mercantile che progressivamente concentrò il potere politico nelle sue mani (la serrata del Maggior Consiglio è del 1297), classe che aveva esigenze di celerità e di semplicità della funzione giurisdizionale ed aveva quindi necessità di sostituire al diritto positivo un potere di libera creazione di norme giuridiche ben stretto nelle sue mani (l’arbitrium venne esteso a tutti gli altri giudici ordinati dal Maggior Consiglio, e quindi a tutte le altre Curie ordinarie, già dal 1279 ed una cosa simile avviene anche con la gerarchia delle altre fonti del diritto, che diventano da norme statutarie emanate dalla concio popolare a parti prese dagli organi costituzionali ristretti aristocratici).

Ed è anche vero, però, come si è cercato di illustrare, che la concezione dell’arbitrium a Venezia era completamente diversa da quella che oggi spesso le viene attribuita senza adeguata conoscenza e consapevolezza dei suoi originari caratteri, che erano quelli di fonte formale del diritto, di giustizia ed equità sostanziale, di rispetto del principi giuridici veneziani e di applicazione dell’etica della morale cattolica.

Articolo scritto da Marco Francescon

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